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novella xxiv. | 41 |
però perdonami, non ti sei diportata da savia donna, come io credea che tu fossi, per tale e tal ragione. Sa Iddio, rispondeva l’altra, se io ti voglio bene (e appiccale un baciozzo ad una guancia); ma tu non dovevi mai far così o così. La terza, che mezzana era della pace, non baciando nè questa nè quella, ma il bicchiere, giurava ch’erano state pazze l’una e l’altra. Così bevendo e cianciando sempre, durarono più di due ore; se non che, veduto che molte genti quivi si raccoglievano, e più, ch’era venuto meno il sugo dell’orciuolo, come se mai non avessero detto parola e mancasse loro motto che dire ancora, abbracciaronsi amorevolmente e si promisero di dirsi il rimanente a maggior comodo e a tempo più opportuno, dividendosi per allora con grandissima fatica.
XXIV.
Di un ubbriaco che dormì nell’altrui casa.
Bella cosa parrebbe a me, per esempio, quand’uno per la via e stanco o non ha voglia d’andare avanti o lo coglie la notte, che egli non avesse ad andare innanzi a forza fino a casa sua, ma che tutte le case fossero in comune. Oh, si dirà, tu puoi andare ad una taverna o ad una locanda. È vero, ma quivi si ha spendere. Non sarebbe forse una buona usanza ch’io pagassi il fitto di una casa, questa servisse anche ad un altro, e che quella di un altro pagata da lui, servisse anche per me, secondo l’opportunità e l’occorrenza, e secondo le faccende che si hanno a fare, oggi in una contrada e domani in un’altra? Mi è venuto questo pensiero in mente nell’udire quello che fece domenica di sera un uomo dabbene per caso, il quale trovandosi verso una cert’ora di notte carico il capo dalla nebbia del vino e pieno di sonno come un tasso, andava attenendosi alle muraglie e camminando come si dipingono le saette. Vede o sente a tasto un uscio aperto,