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262 novella xviii.


XVIII.


Come un Mago facesse desistere un Dervis dall’esercizio della pittura.


Leggesi nelle storie orientali, che Ormuz fu un Califfo pieno di amore de’ popoli suoi, e che sopra ogni cosa desiderava che ciascun uomo nelle sue città e nelle sue terre facesse quell’ufficio e quell’arte che a lui apparteneva. Venne dinanzi a lui accusato un Dervis, il quale in iscambio di attendere agli uffici suoi, si era dato del tutto al dipingere e a fare ritratti, principalmente di donne, e che per non essere conosciuto, vestivasi al modo de’ giovinetti del paese, e dimenticatasi la decenza della sua condizione, entrava ora in questa casa, ora in quella, ed esercitava la vietata pittura, nella quale però egli avea piuttosto voglia di essere valente maestro, di quello che egli fosse in effetto. Certificatosi Ormuz dell’errore, volea gastigare il colpevole con gravissima pena. Ma un peritissimo Mago e molto studioso della natura pensò che questo non fosse errore da punire con tanta rigidezza, e dissene il suo parere al Califfo, esibendogli l’arte sua per far ravvedere il Dervis del suo fallo. Consentì il Califfo, e lasciò la faccenda nelle mani del Mago, il quale fece sì con l’arte sua, che mentre il Dervis adoperava il pennello per dipingere le immagini altrui, in quello scambio sulla tela si vedea sempre l’immagine del pittore, e all’incontro certe figurette ch’esprimevano allegoricamente l’intrinseco de’ suoi pensieri e mettevano l’animo suo sotto gli occhi altrui; onde nacque il proverbio:

O tu che pingi altrui, guarda te stesso.