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novella viii. 243

dire quanto volle l’avaro, che non avea trovato tesoro veruno, ma che solamente era stata sua intenzione di seppellire le pantofole: nulla gli valse: il governatore s’era già fondato in sul cavargli di mano danari, ed il disperato Casem non ottenne la libertà, altro che sborsando una grossa somma.

Il nostro taccagno disperato, bestemmiando le pantofole con quanto cuore avea in corpo, va e buttale in un acquidotto lontano dalla città, e si pensò finalmente di non doverne più sentire a parlare: ma il diavolo, non sazio ancora di fargli de’ mali scherzi, avviò le pantofole appunto al cannone dell’acquidoccio, di che fu turata la venuta allo spillo dell’acqua. I sovrastanti alle fontane corrono subito per mettere riparo al danno, e trovano e arrecano al governatore le pantofole di Casem, narrando che da lui era derivato tutto il male.

Lo sventurato padrone delle ciabatte è di nuovo incarcerato e condannato ad una pena pecuniaria più gagliarda delle altre. Il governatore che dopo punito il misfatto non pretendea di ritenersi cosa veruna che fosse di altrui, gli restituì fedelmente le preziose pantofole. Casem per liberarsi una volta di tutt’i mali che gli aveano cagionato, deliberò di arderle; e perchè erano veramente troppo inzuppate di acqua, le espose ai raggi del sole sul terrazzo della sua casa.

Non avea però fortuna ancora terminate tutte le offese che volea fargli, e riserbarsi l’ultima per la più crudele delle altre. Un cane di uno che in vicinanza dimorava, adocchiò le pantofole, e dal terrazzo del padrone lanciossi colà dov’erano: una ne ciuffa colla bocca, e con quella facendo i suoi scherzi, lasciala dirittamente cadere sul capo di una femmina grossa che passava colà davanti alla casa. La paura e la percossa furono cagione che la femmina si sconciasse: il marito presenta la querela di ciò al Cadì, e Casem è condannato a pagare una pena proporzionata alla disgrazia di che era stato cagione.

Ritorna a casa prendendo le due pantofole in