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192 novella lxxxv.

stimola il non avere più danari, nè roba. Non sa che farà. Passano i giorni, e sempre più il bisogno lo stringe. Va fino all’armadio risoluto, poi torna indietro, e lascia passare un altro dì; ma finalmente, costretto dalle faccende sue, che andavano male, delibera al tutto di cavar fuori la borsa dicendo: Se io non avrò più il tesoro, pazienza; dirò che tanta fortuna non era fatta per me, ma così non posso più durare. Va avanti, che parea adombrato. Guardava ad ogni passo se appariva fuoco in alcuna parte della stanza, gli pareva che le travi si crollassero, avrebbe giurato che il palco gli cadesse sotto. Mette le chiavi nella toppa, non ardisce di voltarle. Se non che vedendo in fine ogni cosa quieta intorno a sè, fa cuore, volta e apre, vede la borsa; chiude gli occhi e l’abbranca con fretta, quasi che avesse a trarnela di mano agli spiriti, e gli cadevano i sudori dalla fronte come gocciole di pioggia. Mettesi tutto trambasciato a sedere, rompe tremando il suggello, scioglie la bocca alla borsa; ed oh! maraviglia e dolore, erano gli zecchini riposti divenuti pezzetti di piombo. Poco mancò che non si tramutasse in piombo anch’egli, così mutolo e freddo rimase: di là a poco parve che gli si aprissero gli occhi dell’intelletto; e vedendo che non fuoco, non rovine di casa e non altro male gli avveniva, conghietturò fra sè di subito, che la borsa buona fosse stata cambiata, nel riporla, in una trista, e che i tre fossero, come in effetto erano, truffatori. Ricorse incontanente all’ajuto e alla tutela delle santissime leggi, e tanto fece che uno degl’incantatori fu messo in prigione, e confermò i nomi degli altri due, a’ quali avverrà quel bene che si hanno meritato.