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novella lxxxv. 189

dire un gran bene del matrimonio, che si dee in ogni conto ajutare, e vollero ad ogni modo essere i compari, e l’avvocato fu quegli che mise i parenti di accordo.


LXXXV.


Trappola tesa ad un Oste.


Per quanto si cerchi d’illuminare gli uomini, s’incontra tuttavia anche a’ tempi nostri, come nell’età più goffe e dalle tenebre dell’ignoranza coperte, certuni i quali si lasciano condurre alla trappola e agl’inganni con grandissima facilità. E sempre ci sono astutacci e tristi che si vanno aggirando giorno e notte per trovare genti di buona pasta che prestino fede alle loro ciance e cadano nella rete che hanno loro apparecchiata. Noi abbiamo qui in Padova un buon uomo di oste, a cui a questi dì è avvenuto con suo gran danno di prestar fede a tre barattieri, i quali gli diedero ad intendere che nella cantina della sua casa vi avea un certo tesoro sotterrato, e custodito non so se da’ diavoli o da altro. Il buon uomo, preso dall’amo di un interesse in aria, e parendogli già di noverare, anzi pur di misurare gli zecchini a staja, non potea vivere se non si ritrovava co’ tre compagni a ragionare della sua fortuna; e non gli parea di poter tanto durare, che vedesse a risplendere quell’oro, di cui con le parole gli aveano riempiuta l’immaginazione. Ma essi, che sapeano tutti i punti dell’arte, ora gli davano ad intendere che le costellazioni non erano ancora a segno, e talvolta gli faceano udire certi romori per casa da far ispiritare le genti; e oggi con un artificio, domani con un altro, gli ravviluppavano sempre più la fantasia; tanto ch’egli avrebbe creduto che non risplendesse il sole, piuttosto che dire: Nella cantina mia non è il tesoro ch’essi compagni affermano. Essi, per confermargli e conficcargli sempre più nella testa questa opinione, una notte segretamente,