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novella lxxxiv. 183

LXXXIV.


L'Iperbole.


Numquam tantum sperat hyperbola, quantum audet: sed incredibilis affirmat, ut ad credibilia perveniat.

Sen., de Benef.


L’Iperbole non ha mai speranza di tanto, quanto ardisce: ma dice cose incredibili, per giungere a quelle che si possano credere.


È una voce quasi comune, che quando ognuno parla di sè medesimo, esalta fino al cielo l’onor suo, la sua buona fede e la puntualità; ma la coscienza è quale una tela di ragnatelo che viene squarciata da ogni menomo stecchetto, o da una pagliuzza che le si ficchi dentro. Un certo filosofo della setta di Pittagora andò alla bottega di un calzolajo, e comperò a credenza per pochi danari non so quai borzacchini o pianelle; dicendogli: Io ti pagherò tal dì. Venne l’assegnato giorno; e il filosofo, che fedel pagatore era, va alla bottega per isborsare i quattrini. La trova chiusa. Picchia, ripicchia; non è chi gli risponda. Finalmente un uomo della vicinanza affacciatosi ad un finestrino, gli disse: Se tu chiedi il calzolajo, egli è morto, e gli hanno anche fatte l’esequie. Mi rincresce, risponde il filosofo. Lascia, disse l’altro, che ne incresca a me che non lo vedrò più al mondo; ma tu che sei di coloro i quali hanno opinione che gli spiriti passino di corpo in corpo, perchè non ti consoli? Non sai tu ch’egli rinascerà? Tu lo vedrai allora. Il filosofo appena comprese che quell’uomo dabbene si facea beffe di lui, essendogli in quel punto entrata nell’animo una certa avarizia che gli faceva aver caro che il calzolajo fosse morto, e ritornava indietro, riportandosi a casa quei pochi quattrini in mano volentieri, dibattendoli e facendoli suonare. Avvedutosi poi di quel-