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novella lxxxi. 169

nell’opinione di alcuni quello che non ha fatto mai, o che non avrà sognato di fare. Le cose di questo mondo sono come una matassa di filo; chi non sa trovarne il capo, la lasci stare, perché s’impiglierà sempre più. A me pare che quando si ode a raccontare qualcosa di uno, si dovesse prendere questa matassa, metterla sull’arcolajo, come fanno le femmine appunto del filo; sciogliere con accortezza il primo nodo, o preso il bandolo in mano, cominciar a dipanare con diligenza, e secondo che si trovano gl’intrighi e i viluppi, tentare se col candore dell’animo e con la verità si possono sciogliere. Se non si può, buttisi via la matassa; ma quasi sempre credo che si potrebbe, chi non corresse troppo in furia, per volontà d’ingarbugliare piuttosto che di snodare. Questa usanza è quasi comune. Benchè la logica insegni in qual forma si abbia a fare per venir in chiaro di certe faccende incredibili o inviluppate, pochi se ne vagliono, menasi il bastone alla cieca, e suo danno a cui tocca. Quando il capo è principalmente alterato da’ sospetti o dal mal volere contro una persona, si può dire che questa sia una specie di ubbriachezza, per la cui forza l’uomo non vede; nè sa più quello che si dica o faccia, e appena conosce più sè medesimo, come è avvenuto a questi giorni in un luogo poco lunge di qua di un certo uomo, di cui si narra la seguente novella.

Costui, di ch’io parlo, è un uomo che ha per nemico mortale ogni pensiero, e in vita sua ha avuto questa opinione, che il fuggire la fatica sia il fondamento della sanità e quel bene a cui si deve rivolgere ogn’intelletto. I passatempi e gli spassi sono sempre stati l’anima sua, e fra gli altri quello del bere gli è paruto sempre il superlativo grado di tutti. Vogliono però dire alcuni che lo conoscono, che tanto ha impacciato il capo di pensieri chi si prende briga della sua famiglia, quanto chi esce fuori di sè pel soverchio bere; perché egli fu veduto più volte in grandissimi sospetti per la nimicizia di