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i galantuomini | 221 |
tuomo insieme agli altri nel casino di conversazione, ciaramellando in crocchio fra di loro, colle mani in tasca e il naso dentro il bavero del cappotto; o giuocavano a tressette colla mazza fra le gambe e il cappello in testa. Al tocco di mezzogiorno sgattaiolavano in furia chi di qua chi di là, ed egli se ne andava a casa, come se ci avesse sempre pronto il desinare anche lui. — Che posso farci? diceva. A giornata non posso andarci coi miei figli! — Anche i ragazzi, allorchè il padre li mandava a chiedere in prestito mezza salma di farro per la semina, o qualche tumulo di fave per la minestra, dallo zio Masi, o da massaro Pinu, si facevano rossi, e balbettavano come fossero già grandi.
Quando venne il fuoco da Mongibello, e distrusse vigne e oliveti, chi aveva braccia da lavorare almeno non moriva di fame. Ma i galantuomini che possedevano le loro terre da quelle parti, sarebbe stato meglio che la lava li avesse seppelliti coi poderi, loro, i figliuoli e ogni cosa. La gente che non ci aveva interesse andava a vedere il fuoco fuori