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pane nero | 187 |
tato in faccia, e se la ficcava in petto, dentro la camicia, brontolando:
— Questa è roba mia. Io non vi tocco. È roba mia e ha da star qui. Se volete mettervi della roba mia allo stesso posto, a voi! — E faceva atto di strapparsi una manciata di capelli per offrirglieli, cacciando fuori tanto di lingua.
Ella lo picchiava con certi pugni sodi da contadina che lo facevano aggobbire, e gli davano dei cattivi sogni la notte, diceva lui. Lo pigliava pei capelli, come un cagnuolo, e sentiva un certo piacere a ficcare le dita in quella lana morbida e ricciuta.
— Sfogatevi! sfogatevi! Io non sono permaloso come voi, e mi lascierei pestare come la salsiccia dalle vostre mani.
Una volta don Venerando li sorprese in quei giuochetti e fece una casa del diavolo. Tresche non ne voleva in casa sua; se no li scacciava fuori a pedate tutt’e due. Piuttosto quando trovava la ragazza sola in cucina, le pigliava il ganascino, e voleva accarezzarla con due dita.