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pane nero 167

faceva nulla per aiutare in casa; e Lucia rimbeccava che senza aver marito gli erano toccati i guai dei figliuoli altrui. La suocera, poveretta, cercava di metter pace in quei litigi, e ripeteva:

— La colpa è mia che non son più buona a nulla. Io vi mangio il pane a tradimento.

Ella non era più buona che a sentire tutti quei guai, e a covarseli dentro di sè: le angustie di Santo, i piagnistei di sua moglie, il pensiero dell’altro figlio lontano, che le stava fitto in cuore come un chiodo, il malumore di Lucia, la quale non aveva uno straccio di vestito per la festa, e non vedeva passare un cane sotto la sua finestra. La domenica, se la chiamavano nel crocchio delle comari che chiacchieravano all’ombra, rispondeva, alzando le spalle:

— Cosa volete che ci venga a fare! Per far vedere il vestito di seta che non ho?

Nel crocchio delle vicine ci veniva pure qualche volte Pino il Tomo, quello delle rane, che non apriva bocca e stava ad ascoltare colle spalle al muro e le mani in tasca,