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vece fitti, serrati, vanno come un’onda di su, di giù, per la spianata e pel bosco vicino.

Così la pedonaglia. Ma quelli di maggior bussola non compajono se non nel basso del giorno, tanto più tardi quanto ciascuno è, o si crede da più. Monza, Milano, Como, Bergamo (e si v’è due passi) risentono ai corsi loro la mancanza della crema o della schiuma dei cittadini: e dove sono? al bosco d’Imbevera. Zerbinotti che sbraveggiano su sbuffanti puledri, o trionfano in tilbury eleganti: gran signori rimpettiti in comodi cocchi, con ambiziose mute, condotte a centinaja di zecchini dai pascoli dell’Holstein e dell’Olanda: fittajuoli che staccarono dalla benna e dall’aratro i robusti ronzinanti svizzeri, e rivestirono di nuova livrea il carrettiere: nobili scadenti, o sorgenti plebei, i quali noleggiarono ad alto prezzo un calesso, due rozze e un vetturale, il quale cornando e schioccando fa rumore per quattro: particolaretti che coll’industria sperano quando che sia mutar in carrozza la timonella di cui ora mal s’accontentano: il granajuolo nella sedia o nel baroccio che lo porta il sabato ai mercati di Lecco o alle calende a Bergamo; tutti insomma qui piovono a darsi aria, a vedere, a farsi vedere. Gli alberghi più capaci della città appena basterebbero a tanto concorso, non che le meschine bettole del contorno, poco migliori di quella ove, ducencinquanta anni fa, vendeva vino il nostro Cipriano. Quindi vedi i cavalli affidati a ragazzi su pei prati; e da tutte le bande disposti in fila cocchi a centinaja, che dico? a migliaja: e tra quelli sparsi i pitocchi, che sporgono la mano o il bossolo, ostentando al passeggero piaghe, moncherini,