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tacolo è quello degli spettatori. La romita solitudine, onde sono per tutto l’anno circondati la povera chiesuola d’Imbevera e un casamento eretto là d’accosto, ogni otto di settembre si popola così rapidamente, così variamente, come si legge che un giorno solevano le selve al cenno delle fate.

Chi drizza a quella volta, già da assai lontano ode una romba, simile al romoreggiare della marina. Ed ecco le strade, che d’ogni parte vi capitano, brulicare di gente, contadini, artigiani, mestieranti, soli, a coppie, a gruppi, a frotte. Giovinetti con capelli di paglia artificiosamente trecciati a trafori, adorni con piume, specchietti, galanterie: quali contenti del frustagno e del taglio all’antica, mentre gli altri vestono giubbe più moderne, colla cocca del fazzoletto affacciata alla tasca e con larghi pantaloni, invano e dal curato e dal fattore rinfacciati loro siccome indizio evidente d’insubordinatezza e d’irreligione; pigliansi al collo gli uni degli altri, a spintoni rompono la calca, od in ischiere arditamente festanti colla zampogna fanno risonare concerti, che sentono il sole e il vento della montagna. Le caute madri, tutte occhi a vigilare le ingenue fanciulle, quel giorno permettono che, per devozione, esse vadano a Imbevera. Tu scerni la Brianzuola alla snella corporatura, ai baldanzosi fianchi che davano per la fantasia al mio Parini, ad un’aureola d’argento al capo: distingui la briosa Bergamasca al bustino cortissimo di vita, ai vezzini d’oro, ai cincinni della fronte, ad un agone a trafori infisso nelle trecce cascanti bizzarramente da una banda, a certi sguardi bricconi. E tutti ne’ varj loro dialetti chiedono, cianciano, gridano, fanno