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I primi passi, com’era naturale, furono alla nuova chiesa.

Se don Alfonso avesse potuto sciogliere lo scellerato suo voto, avrebbe forse eretto ed ornato uno splendido tempio, perchè laute sono le rimunerazioni onde il delitto mercanteggia la complicità, che al Cielo domanda. La gratitudine, più modesta, non aveva edificato se non una angusta e disadorna chiesuola, che il sindaco mostrò parte a parte con una compiacenza da artista. Il signor vicario poi montò in una botte sfondata della cànova di Cipriano, che per quell’occasione erasi rinfronzita in modo da scusar di pulpito, e sopra il versetto Sicut fluit cera a facie ignis, dispereant peccatores a facie Dei, et justi epulentur et delectentur in lætitia1 sfoderò un bravo panegirico; un panegirico sulle molle. Gli è ben vero che, quando i signori gliene presentavano le loro congratulazioni, egli asseriva che unicamente la cortesia di essi era la cifra che dava valore allo zero de’ meriti di quello, e volse lasciare intendere d’averlo fatto a braccio; ma non è facile il persuadersene chi badi all’erudizione e all’ingegno che v’erano a pale. Accennò di fatto tutti i templi antichi, da quel di Serapido fino alla rotonda di Agrippa; recitò una sequenza di architetti i più famosi; con una dilicatezza da stordire encomiò i Sirtori e la signora Perego sotto al velo di Salomone e di Zorababelle; conchiuse esortando i contadini ad elevare un mistico tempio, dove gli affetti fossero i muratori, che, colla calce della carità fraterna

  1. Come dileguasi la cera al fuoco, tal periscano i peccatori dalla faccia di Dio, ed i giusti banchettino ed esultino in allegrezza. Salmo LXVII.