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dell’osceno che le aveva trucidato lo sposo, egli, convertito l’amore in odio mortale, ingiuriata di mille scorni, l’aveva sepolta in quel sotterreno, dove non sapea dir quanto tempo, giacchè nulla numerava la monotonia de’ suoi giorni, ma certo anni ed anni era vissuta, desiderando, invocando la morte, nè da alcuna consolazione confortata, se non dall’avere, tra gl’impeti della collera del feudataria», compreso come di mano gli fosse scampato almeno il diletto suo Alessandro. All’intenderla, il vicario impietosito diceva: — Affè, vossignoria può cantare col redivivo Giona: De centre inferi clamavi, et exaudisti, Domine vocem meam1». Il figliuolo piangeva dirotto, ad ora ad ora esclamando, — madre mia, mia cara madre, quanto patire!»
— Sì» rispondeva ella; «sì, ho patito e quanto! Ma l’innocente che geme sotto la prepotenza ha un conforto inesauribile ove si volga al Signore. Io lo pregava di cuore; io pregava la beata Vergine dei dolori, che fu madre anch’essa, che essa pure ha perduto un figlio per l’iniquità degli uomini; pregavo non perchè finissero i miei tormenti, che nè tampoco lo speravo, ma per ottenere pazienza, ed allora sentivo mitigarmisi gli affanni».
Più minuto osservando, si conobbe come il sotterraneo rispondesse appunto sotto al letto del feudatario, che conservando viva la sua vittima, avea voluto sorsi a sorsi assaporare la voluttà della vendetta. Tenere in catena il suo nemico; sapere quel che ad ogni istante egli patisce; contarne, sto per dire, i gemiti uno ad uno, e questo nemico non avere altra cagione d’abborrirlo se non le ingiurie re-
- ↑ Dall’inferno esclamai, e tu, Signore ascoltasti la voce mia.