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strascinato in quel serra serra, a somiglianza d’un tordo presiccio che starnazza e ficca il capo fra le grettole della gabbia se mai possa distrigarsene, così lui, dimenticati i testi e le metafore, prendendo or questo or quello per la giubba diceva: — State buono state savio; altrimenti posso andare di mezzo anch’io che non ne ho nè colpa nè peccato».

Da tutto questo ajutati, i bravi si rannodarono e, rotto il folto della calca, guadagnarono la portella del palazzo, liberarono i mastini di guardia, raccolsero altro servidorame, abbarrarono l’ingresso e ripigliato il sopravvento, tornarono a scaraventare maledizioni e bestemmie, ad inarcar gli archibusi, a minacciare di mandar tutto a fuoco e sangue. Valse l’opera di don Alessandro, sicchè la gente tanto o quanto si ritrasse; il sindaco situò intorno alla porta una dozzina di suoi fidati, e allora il guardacaccia, tanto più coraggio mostrando (usanza di molti) quanto peggio la vedeva parata, e dell’ansietà del Sirtori valendosi per trovare e scampo e denaro, cominciò, quasi fosse lui il buono e il bello, a lamentarsi della promessa fallitagli, e alzar le pretensioni. — Ora che la va di picca, (gridava, battendo per terra il calcio del fucile) qui dentro non ci entrerà nè lei ne altro muso, finchè io sappia sparare una palla contro un temerario. Alle corte, per fare una parola sola, dia a me cotesta chiave. Io ho pratica della casa; andrò a vedere, a ricercare. Se no, la si tenga la sua curiosità finchè glielo dico io.»

Il guardacaccia poneva tutta l’importanza del fatto nell’aversi in mano quella chiave: perchè (discorreva col pensiero) o sotto di essa vi è il mar-