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tori, che cogli sguardi cagneschi ricambiando i cagneschi sguardi degli altri, parevano dire, — Eccoci qua, per qualunque caso, a darvi buon conto di noi». Cipriano che, durante il diverbio, a guisa d’una macchina avea voltato la faccia e la bocca a quel dei due parlava, ora, colle spalle sempre volte al tabernacoletto, e rispondendo sopra pensiero alle orazioni delle preganti, non dispiccava mai l’occhio dai combattenti, e colle braccia e con tutta la persona ne secondava i colpi. Poco lontano il Guercio due altri bravi ustolavano e adocchiavano con ansietà; e si dicevano tra loro: — Sta a vedere che il padrone risparmia a noi la fatica di fargli festa.

— Mi pare piuttosto (soggiungeva il Guercio) che il giovane voglia risparmiare a noi la ramanzina o peggio, che il padrone ci ha promesso.

— Mi rincrescerebbe (aggiungeva il terzo) a restare senza salario».

Infatti apparve ben tosto come il giovane sull’altro prevalesse. L’Isacchi era il toro inferocito, che assale ad occhi chiusi; l’altro, più freddo e cauto, colla sinistra dietro il fianco, la destra sporta, l’occhio fisso all’arma dell’inimico, mentre con quieta destrezza ne schivava o schermiva i colpi, pareva andar ritenuto per non trargli mortalmente, nudrendo ancora quella speranza che conserva un onest’uomo, strascinato contro voglia ad un tal passo, quella d’uscirne con nessuno o poco sangue. Don Alfonso, non aspirando che ad uccidere l’inimico, gli cacciò una puntata di sotto in su, ma l’altro fu lesto a dargli un mezzo riverso sopra il braccio destro, al tempo stesso che gli voltò una punta al petto, piegando ad arte lo stilo in modo di scalfirlo