Pagina:Novelle lombarde.djvu/53


49

dall’abitudine della servilità. Cipriano, riposte anch’egli le sue armi e trattosi il cappello, stette ad occhi bassi, e per un istante si fece un silenzio cupo, siccome all’avvicinare del terremoto; finchè don Alfonso, fiottando e con piglio quanto più si poteva severo, gridò a quei tre: — Così s’adempiono i miei ordini, canaglia? Animo, al posto, e me ne renderete ragione».

Non pareva vero a Cipriano che l’Orso sgridasse i suoi uomini per una cattiva azione, e risorto da morte a vita, andava fra i denti raccappezzando un ringraziamento da recitargli. Ma come in chi abbia sorbite alquante stille di belladonna, alla dormigliosa vista si presentano gioconde figure, che a poco a poco si tramutano in mostruosi sembianti, alla guisa stessa il povero villano ebbe tutto a rimescolarsi, quando, alzati gli occhi, scôrse il torvo cipiglio del feudatario, che col tono istesso di minaccia, gli parlò: — E quanto a te, mascalzone petulante, che ardisci opporre la forza alla mia livrea, l’avrai da fare con me».

Cipriano intontito biascicava una risposta, una scusa, quando per trista giunta vide fissati sopra di sè i torti occhi del guardacaccia. Avrebbe allora voluto sobbissarsi, e voltava la faccia, stringevasi nelle spalle: ma invano; chè quegli, fattosi più dappresso e battendogli una palmata sulla spalla, — Olà! (gridò) non m’inganno: tu sei uno di quelli che l’altra settimana andava ammazzando lepri pel bosco». Indi con uno sgrigno satanico replicando la battuta, — Ora t’ho côlto (proseguiva) e il tuo salario, come t’ho promesso, ti verrà prima del sabato».

Don Alfonso, già esacerbato dal colpo fallito, ora