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di comprendere a loro pro, come con certa razza di gente, sia un torto l’aver ragione.

A don Alessandro, che poteva contare allora fra gli otto e i dieci anni, non restava che una confusa rimembranza di quel fatto; un temporale, un’aggressione, qualcuno che lo levò sotto il braccio, e turandogli la bocca, lo recò lontano, sotto un diluvio d’acqua, erano idee che gli soccorrevano alla rinfusa. Ricondotto poi a casa sua, si sovveniva gli erano state fatte molte interrogazioni, cui mal sapeva rispondere; e come tra quelle udiva sovente esclamare: Ah! non se ne può dubitare: ma è un cane troppo grosso».

Più oltre non lo ajutava la sua memoria, nè gli altri fatti per noi riferiti erano ad esso conosciuti. Perocchè, non avendo qui alcun prossimo parente, e d’altra parte bramando allontanarlo dal pericolo troppo vicino, lo chiamò presso di sè uno zio, monaco del più rinomato convento di Padova. Su quella Università fu messo a studio, dove gli avevano insegnato il latino, il greco, e far versi, e quelle altre istituzioni così importanti al viver bene. Egli le apprendeva e se ne faceva onore; poi, come fanno tutti; le disimparava via via che a qualche cosa nuova era applicato. Per altro in quell’educazione più sciolta egli acquistò idee meno servili: nessuno rammentandogliene, dimenticò le nimistà ereditarie in sua famiglia: il ricordo d’una grave sventura patita in fanciullezza, i soprusi che più d’una volta avea dovuti tollerare dai camerata, orgogliosi nella protezione de’ nobili uomini di colà, avevano giovato a formargli, o, dirò più bene, a conservargli un animo, quale da bambini sortiamo, tutto aperto