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Pochi anni dopo, il conte Sirtori morì giovane freschissimo, di una malattia così bisbetica che i medici di campagna la giudicarono cansata da acquetta, sebbene quelli di città inclinassero piuttosto a crederla effetto di stregamento. Ancora in gramaglie era le vedova di lui, quando rivenendo, non so donde, allo sue terre in Sirtori pel cammino del bosco, coll’unico suo figlioletto, e sorpresa da un tùrbine, essendosi riparata sotto un gran noce che faceva ombrello al tabernacolo d’Imbevera, fu assalita, da alcuni sicarj, i quali uccisero i lettighieri suoi ed un servo che la scortava: un altro servo, col favore del bujo, riusci a trafugare il fanciullo, che era appunto il nostro don Alessandro; la dama non fu trovata più nè viva nè morta. Fatto misterioso anche questo, non meno del precedente.

Era in quel tempo sindaco di Barzago un benedetto omicciuolo, che per le cento lire di suo stipendio credevasi in dovere di tutelare i diritti del Comune fin contro del feudatario, e che, ignorante affatto del vivere del mondo, mai non si era avvezzo a quella che, e in quei tempi ed in altri, era la prima e somma delle virtù, cioè chiudere coi padroni un occhio, e se occorra tutt’e due, chinare il capo, e dire di sì. Costui, avendo osato commentare quell’avvenimento e soggiungere che la non gli pareva farina netta, la sera seguente si trovò appoggiato un fiacco di mazzate, non sapeva da chi; solo ricordava che gli avevano detto essere questo un tientamente per lui e per gli altri villani, di non frugare troppo a fondo nel sacco de’ padroni.

Circostanza minuta, che però non volli lasciare nella penna, affinchè i lettori miei abbiano occasione