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uffizi. Ed ai contravventori, sotto qualunque pretesto si mantellassero, vuole sia inflitta la pena di cinquanta scudi e cinque tratti di corda, et più allo arbitrio della medema Eccellenza sua.

Chi fa colpa a quel governo perchè, dopo buttate fuori spaventose gride, non curassep più che tanto di mandarle ad effetto, non avrebbe una riprova in cotesta; poichè in una cronaca trovo notato che dalle pene ivi minacciate fu poco di poi colpito un pizzicaruolo, perchè disturbò la devozione della gente affollata a sentir messa in Santo Stefano col correre tra quella a cercare ansiosamente un chirurgo affinchè tosto uscisse a medicare un fruttajuolo, il quale, sul Verzajo, aveva tocche due coltellate da un macellaro.

Benchè da queste pene potesse don Alfonso tenersi sicuro pei riguardi dovuti ad un’illustre famiglia, come provocatore avrebbe potuto essere ricercato; laonde, per causare ogni disturbo, abbandonò la città e si ritrasse nel palazzotto di Barzago, ed ivi trovò opportuno fermare sua stanza. Si mise attorno una mano di bravacci, disposti a fare ogni suo cenno e peggio, e così indipendente esercitava le sue volontà. Ne’ primi giorni che fu uscito di Milano, invelenite le vecchie piaghe colla recente, scese dal castello nel bosco di sanguinose rimembranze, e venuto al tabernacolo d’Imbevera, vi si inginocchiò e fece una scellerata preghiera, ove prometteva alla Madonna, se, col patrocinio di essa arrivasse a sterminare la razza di colui per cui colpa gli fu l’avo trucidato, le innalzerebbe nel luogo medesimo un tempio sontuoso, ove d’ogni parte accorrerebbe agente a tributarle onori ed oblazioni.