Pagina:Novelle lombarde.djvu/32

28

saranno rimessi secondo gli avremo rimessi noi ai nostri offensori!

Nel giovinetto Alfonso rimasero pertanto associate le idee di religione e di vendetta, l’effigie della Madre della misericordia, le sacre parole, gli affettuosi ricordi d’un agonizzante, colla promessa d’un assassinio. Se tanto ancora non fosso bastato, rinasprì le ire il matrimonio che il signor Sirtori, padre di don Alessandro, strinse con una ricca dama dei conti Perego, sulla quale, o, a dir meglio, sulle ricchezze, sui titoli, sulle parentele della quale aveva messo gli occhi don Alfonso.

Per questa rivalità stavano l’uno in sospetto dell’altro, nè andavano in volta per Milano se non con buona scorta d’amici e un codazzo di bravi.

Accadde (e fu il giorno della Pentecoste) che don Alfonso, con una dozzina de’ suoi appoggiati, entrò in Duomo, nel mentre quel Carlo Borromeo che operò ogni poter suo per sostituire in mano dei nostri patrizj il rosario alla spada, faceva un’omelia sopra quel testo, Se alcuno ti percuote la guancia destra, e tu porgigli anche la sinistra. L’Isacchi, avanzatosi in mezzo alla devota ciurmaglia, che gli dava il passo, si fermò accanto ai panconi, su cui stava seduto il Sirtori cogli aderenti suoi. Questi e quelli cominciarono, come si dice, a rizzar il pelo e guardarsi a squarciasacco: uno fa i seguaci dell’Isacchi, fosse caso o prurigine d’aizzare, striscia col gomito e scompone il collare al più vicino fra quegli altri: costui si rivolta con un mal piglio; con un peggiore lo fissa l’altro: comincia un brontolar sordo, fra il quale una voce abbastanza chiara proruppe: — Qui c’è alcuno che vuol farsi mettere in gabbia».