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Così mi trasse ad una camera sulla cui soglia stava seduta al sole una povera creatura, il volto ingiallito e macilente, le labbra cascanti, l’occhio luccicante d’un fuoco non naturale: d’un fazzoletto bendato il capo, con le mani sotto al grembiule, stavasi tutta accovacciata come se gelasse, ed era l’agosto. Io diedi indietro, allorchè in quella grama ravvisai la bella, la viva Gioconda. Alla quale dirizzandosi, la vicina — Oh (disse) guarda: conosci tu questo signore».

La tapina alzò gli occhi, mi fissò incantata come chi cerca con fatica nella mente una lontana ricordanza, poi rispose: — Sì», e mi nominò, indi lasciò ricascare il capo sul seno.

— Che non gli dici tu qualche cosa?» replicò la vicina, vedendo ch’io non poteva formare parola, tant’ero accorato. E la poveretta parve ravvisarsi, e cominciava: — Quanto tempo che non la vedo. Ma ora stò così lontano! E lei, posto ch’è qui, verrà alle mie nozze? Oggi l’aspetto, sa? Vede? mi son messa in chiccheri per questo. M’ha già donato gli anelli»; e con un amaro sorriso mi sporgeva le mani scarnate, le cui dita aveva innanellate di stame. — Certo (proseguiva), sebbene egli sia un gran signore, mi sposa me, me povera fanciulla.... Oh sì, sì! io sono una povera fanciulla, io....»

E ruppe in dirottissimo pianto, di mezzo al quale più d’una volta ripeteva: — Ha ella mai avuto per amico un signore? non gli creda, non gli creda».

Poi di tratto cessò, e rimessa sul suo delirio, — Verrà ella a trovarmi? Lontan lontano, sa? e non parlano come quì, ma una grande città, un magnifico palazzo! Ha da vedere. Lì un giardino: e non