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i passati scompigli. Costretti dunque a ricorrere alle vie legali, gli Isacchi umiliarono alla Corte di Madrid le discolpe di don Giberto.

Qualche valente appoggio e l’essere morto il duca d’Alba fecero trovare colà ascolto favorevole ai loro richiami, e dopo cinque anni arrivò uno spaccio, che, dichiarando innocente don Giberto, cassava il bando contro lui pronunziato. Gli Isacchi dovettero allora, rinnovare le rimostranze alla Corte facendole conoscere come l’assolto fosse già stato ucciso. E la Corte, dopo non so quanti mesi, rescrisse che il padre era stato male ammazzato, riabilitò il figliuolo di esso ai titoli ed agli onori di prima, e gli rese i beni, che, come roba di rubello, erano stati condannati a rimanere incolti; altro dei mezzi onde quel governo faceva prosperare l’agricoltura e crescere il buonmercato.

La testa dell’ucciso fu dunque levata di colà; e nel luogo dov’era stata sospesa, il figliuolo di lui, in memoria ed in espiazione, fece erigere un tabernacolo; il tabernacolo appunto d’Imbevera. Quella depravata religione, che pretesseva alle scelleratezze il nome di Dio, anche nella scelta dell’effigie da rappresentarsi fece all’Isacchi preferire quella che alla sua idea ricordava una vendetta; cioè la più pura delle donne che schiaccia il capo dell’antico avversario, col motto della Genesi sopra accennato che sonasse, non la promessa del riscatto, ma una minaccia di sangue.

Imperocchè, sebbene astretto a rodere il freno, l’Isacchi era ben lontano dall’avere dimentica la ingiuria del nemico. Avvezzo in quegli anni a vedere, secondo la sorte delle battaglie e gl’intrighi