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trionfata città, egli senz’altro lo mandò a morte. Il Sirtori, cieco per furor di parte e per sete di vendetta, si giovò dell’opportunità per dipingere don Giberto come ostinato ribelle, e senza molta fatica ottenne dal governatore uno di quei decreti eccessivi, soliti emanarsi nell’ebbrezza dei trionfi, col quale si bandiva la taglia di dugento scudi d’oro sul capo di don Giberto.

Questi, che mai non aveva dimesso le armi, conservavasi a capo d’un pugno di bravacci risoluti, quando intese la sentenza, sorrise e battendo la mano sulla fondina delle pistole, esclamò: — Chi mi vorrà morto avrà a fare con queste».

Calcolava egli sulla forza aperta, non sul tradimento. La tentazione della taglia vinse uno tra i suoi affidati, che lo scannò, ed ottenne l’oro ed il disprezzo, — mercede perpetua dei traditori.

Il capo reciso dell’Isacchi, chiuso in gabbia di ferro, venne sospeso ad una pianta lungo la via che fendeva il bosco, dal quale soleva egli sbucare alla devastazione, all’incesto, all’assassinio, acciocchè ivi rimanesse a perpetuo spavento.

L’infamia e la pena de’ genitori, secondo la giustizia d’allora, ricadevano anche sui figliuoli e sui parenti: onde non occorre vi dica quanto la famiglia Isacchi restasse di tanto oltraggio irritata. Ogni colpa, nè a torto, veniva attribuita al Sirtori, e il desiderio di vendetta contro questo esacerbava le antiche inimicizie, quanto più era represso dallo stato politico d’allora. Poichè il duca governatore aveva bandito che cessasse ogni dissensione tra famiglie e famiglie, nè i privati esercitassero più la cieca ragione di guerra, che si erano usurpata fra