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Quando fu bandito all’incanto, l’agnellino belava tal quale un fanciullo; e tal quale una madre lo compativa Caterina. Ma il garzone che s’intendeva con essa, fattosi avanti e rotto il silenzio, cominciò a dirvi sopra. E già superati i competitori, tenevasi certo l’acquisto ambito, allorchè s’ode una voce tutta nuova, non più crescere a goccioli come sogliono, ma raddoppiare d’un colpo il valore. La Caterina, il garzone, tutti volsero lo sguardo a quella parte, era il signor Ernesto. Onde, tra per rispetto; tra per l’esorbitante prezzo, nessuno più osò dirvi, ed una e due e tre, fu a lui liberato l’agnellino.

Quale rimanesse la fanciulla, quale il suo damo, lascio a voi pensarlo. Tra mesti e dispettosi pareano dire cogli occhi: — Or che fa a costui quell’agnellino? ma a noi come fu, come sarebbe prezioso?

La folla intanto si diradò; ed ognuno tornossene a casa, raccontando con ressa giuliva le avventure e ogni accidente a chi non era potuto intervenire. Ma la Caterina, accosciata presso il suo povero focolare, accanto al povero suo padre, pensava, fantasticava, rammaricavasi: quand’ecco entrare tutto gaio il signor Ernesto, e — Bella ragazza, che mi date voi, ed io vi rendo il vostro agnellino?

Curiosità, interesse, amor d’avventure, fors’anche pietà, aveano mosso Ernesto a voler sapere di quella fanciulla. La quale, dipinta di rossore fino agli occhi, levatasi di sedere e chinate le pupille, — O signore (rispose), che può mai darle una povera fanciulla? Foss’io men povera, e certo quell’agnello non mi sarebbe uscito di mano.

— Convien dire vi sia ben caro, eh?