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esso è schietto e mite siccome il cuore di chi me lo dettò.

Veniva dunque, e viene tuttavia ogni autunno a villeggiare in Tremezzina un giovane (gli porrem nome Ernesto per non dire il suo proprio), bello e robusto di sua persona, ricco a dovizia, vivace, lusinghiero, colto quanto basti per avvivare un circolo senza aggravarne le futili importanze. Aveva ne’ suoi verdissimi anni amato una fanciulla coll’impeto del primo affetto: n’era stato lusingato, poi tradito: e da quell’ora, o fosse per vendicare su d’altri le pene da sè patite, o un leggero concetto che dell’amore si fosse formato, siccome di passione il cui rimedio sono il possesso e la sazietà, lo trattò sempre come calcolo, come celia, come un altro de’ varj passatempi, per nulla computando che lacrime, che inquietudini, che spasimi cagionerebbe.

Quella che prima, coll’ingannarlo, l’avea così traviato; n’avrà ella mai sentito rimorso?

Non crediate però che l’anima ben fatta di Ernesto si trovasse paga fra le gioje irriflessive del bel mondo. Agognava al piacere, che sembrava fuggirgli dinanzi: se alcuno gliene avesse mostra la sorgente migliore, v’avrebbe attinto; ma così, andando tentone, la credeva riposta nel fare tutto quel che gli garbasse. Onde, per vanità, per ghiribizzo, per puntiglio, aveva delle volte assai, non solo sfiorato tra quelle molte le quali non cercano che d’essere divertite, comprese, adorate, ma turbato la pace di spose inesperte, guasta la verginale sensitività, così preziosa e così fragile, delle fanciulle; nè le incantevoli rive della Tremezzina erano rimaste intatte dall’orme sue voluttuose.