Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
187 |
Quella bellezza d’estate che seguì venne carissima a tutti, ma più a me che sapeva come, al fine di quella, Mommolo sarebbe tornato, e non più alla sfuggita come l’altre volte, ma per menar seco me e mio padre, e andare a starci insieme. Questo pensiero me la fece parere un lampo. Nelle ore che restavo in casa, dopo pascolata la mandra, io mi cuciva quelle po’ di camicie pel mio corredo, e qualcuna per lui, che sapevo quanto gli sarebbe cara, perchè la canapa l’aveva coltivata io, io macerata, io macinata, filata io, ordita io la tela, io curatala su quel pratello ch’esso conosceva.
Intanto egli, per rifarsi di quanto aveva scapitato fra i guasti del tutore e fra il mantenimento nostro, era andato a lavorare alla bassa. Come appena i travagli della campagna furono terminati, comparve. Erano i primi giorni dell’ottobre, come adesso; e come adesso, tutto era bello, tutto allegro: egli giocondo che mai non l’avevo veduto tanto: io poi.... se lo figuri. Si andò subitamente a togliere il sì dal signor curato, e che consolazione per me il sentirmi comandare come un obbligo che dovessi per tutta la vita amar il mio Mommolo, amar lui solo!
Fatto tutto quel che si doveva, spuntò finalmente il giorno tanto aspettato dello sposarci.
La sera innanzi, fummo tutt’e due a confessarci. La notte, io non chiusi occhio. Come l’avrei potuto? Quel momento, che da tanti anni avevo vagheggiato, quel che doveva rendermi sua per sempre, che aveva ad esser principio a tanta felicità, quanto me n’immaginavo, era pur venuto; stavo pure per sentirmi dire fortunata, e vedermi invidiata da tutte le compagne.