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del patrio mio lago, e rispondere da scherno alle fucilate che, da senno, alcuni de’ miei terrieri, credendo farsi buon merito e nome di coraggio, sparavano lor contro, di stando nelle case rimpiattati e col lago di mezzo.
— Timore però (continuava la Menica) noi non n’avevamo quassù: chè, se vi capitarono qualche volta, non fecero prepotenze, spartirono con noi il poco mangiare e le stanze, e se ne tornarono tranquilli, non disturbando le opere e la pace nostra, e solo intimandoci di non dar ricetto a soldati, o sarebbero guaj. Onde io, giovinetta allora sui sedici anni, uscivo sicura ogni giorno a pascolar le mie vaccherelle, senza un pensiero del mondo.
Un giorno, mentre le ravviavo dal prato, allo svolto del sentiero mi corre alla vista un giovinotto, riposato a gomitello sull’erba... Che bel giovinotto, s’ell’avesse visto! grande, complesso, ben formato: due occhi che parlavano; certi ricciolini, che, scappandogli fuori di una berretta colorata e infiocchettata, gli contornavano il viso rubicondo: una fusciaca rossa a cintola; in quella un paja di pistole, e lì a fianco un fucile. — Buona! diss’io tra me. Son capitata in un Birgante»; ma che monta? non mi sgomentii. Tanto più ch’egli, levatosi a sedere, mi salutò, ed io lui. Dopo alcune parole tutte grazia, mi chiese a bere, ed io subito, munta una capra, lo contentai; del che mi ringraziò tanto cortesemente che mai: e di picchio tirai innanzi, intonando la mia canzone. Vero è che, come fui al piegare della via, mi guardai indietro, e lo vidi che s’era ritto in piedi, mi stava fissando, mi salutò colla mano, ed io colla mano gli risposi.