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Non ero gran che lontano dal sommo, ove io divisava trovare qualche abituro da passare notte, quando scôrsi un camposanto, recinto cui niun altro segno distingueva fuorchè una croce e un teschio, rozzamente effigiati colla cerussa su’ muro, ed un’altra crocetta di due regoli appena digrossati, eretta nel mezzo. Ma dinanzi a quest’ultima stava una donna ginocchione; e pregava con atto così pio, che riempì me pure di devota compunzione.

Ho visto i pomposi cimiteri che le città preparano per fare men luttuoso il luogo dove gli stancati mortali depongono finalmente la grave catena delle speranze, trascinatasi dietro dalla culla alla bara. Quivi colonne, archi, cippi, sonore iscrizioni, ambiziosi stemmi e pitture, simmetria d’alberi funerei, vago disordine di cespi fioriti, e lumicini alimentati dalla quotidiana premura di chi viene a dar un sospiro, un suffragio al caro defunto, sinchè il volgere degli anni e il succedersi de’ casi indebolisce, poi spegne o volge altrove quella pietà; e il lumicino s’ammorza, e i fiori, appassiti coll’ottobre, più non rinverdiscono coll’aprile, ed alla fine il nome dipinto o scolpito è cancellato da quell’ala del tempo, il cui lento ma costante battere distruggerà i mausolei di Santa Croce, e le piramidi dell’Egitto. Queste cose ho io vedute, e mi toccarono sempre l’anima; non però mai quanto un cimitero campestre nella sua semplicità. Quivi l’uomo riposa in mezzo a gente che tutta conosce: chi lo visita, sa dirvi, quand’anche una croce od un sasso non lo ricordi, — Qui dorme il tale; e chi gli è a fianco è il tale; e il tal altro è al capo loro».

Qualvolta poi, dopo i vespri festivi, m’incontra di