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Quanto erano buoni i nostri maggiori, direbbe più retto, Quanto erano cattivi; od almeno, Quanto erano infelici.

Spuntava il settimo giorno di settembre del 1590, e rompeva il silenzio di quel bosco un via vai, un latrare di bracchi, un pestìo di cavalli, uno stridire di falchi, un chiaccherare ed affaccendarsi di cacciatori, che in frotta venivano intorno a don Alfonso. Egli seguiva a cavallo, discorrendo, fra un signore e una dama di freschissima apparenza, tutti con falchi e balestre e panie e gli altri arnesi adatti alla caccia, quale facevasi in tempi che il fucile, non ancora perfezionato, s’adoperava poco più che ad ammazzare gli uomini. La signorina, lieta di gioventù e novella sposa, dando libero corso ad un’indole gioviale, stata sin allora repressa fra le austerità della monastica educazione, volgevasi via via a richiedere don Alfonso or delle caccie, or delle terre che, nel discendere l’erta, scoprivano a man mano nella pianura sottoposta e sugli alti clivi rilucenti al sole mattutino, e pareva tripudiasse di incontrare tutto il creato in armonia colla felicità ond’ella si sentiva inondata.

Ma sopra pensieri camminava il giovane suo sposo; e se ella con un sorriso pieno di dolcezza insieme e di vivacità lo confortava a rallegrarsi, — Com’è possibile (rispondeva), Emilia mia? Questi luoghi tu sai quanta sventura mi rammentino. Ma lei, don Alfonso, ben deve lei aver a mente la grave disgrazia qui occorsa a mia madre.

— Oh.... sì... certo.... N’ho inteso parlare», rispondeva il feudatario, aggrottando viepiù le fosche sopracciglia.