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una grave disgrazia, una perdita improvvisa ve l’avrebbe forse ridotta; ma la noja presente le infondeva l’incertezza del dubbio, non l’eficacia della risoluzione.

L’altro partito ancor più l’aveva lusingata da quando era apparso in queste vicinanze il cavaliere Gualberto Morone. Nasceva esso da quel Girolamo Morone, conte di Lecco, potentissimo a’ suoi tempi presso Francesi e Spagnuoli, il quale, rimestate a voler suo le cose politiche col senno e colla morale del Machiavello, aveva messo al vescovado di Modena uno de’ figliuoli; quest’altro avea destinato ai pubblici negozj. Pensatore ed animoso ne’ sacri pericoli della patria, questi, tra la miserabile lotta agitata in quel tempo, avea con ispasimo veduto i principi italiani combattere, non più pei diritti o per la vanità, ma al cenno di stranieri: aveva veduto Francesco II Sforza, ultimo rampollo d’una famiglia ereditiera della libertà e della tirannide lombarda, imbecille e soffrente languire sotto un peso soverchio alle sue spalle: avea veduto la ducea disputata fra raggiri di scaltri ed armi di potenti: sinchè al fermento del lievito italiano succedeva una pace indecorosa, nella quale ai figli, cui i genitori aveano creduto tramandare morendo un avvenire, una speranza da maturare, non rimarrebbe che d’avvilirsi o stordirsi. —

Qui uno sbadiglio che dal fondo della barca intendemmo, fece accorto il buon prete a chi parlasse; onde, calmato l’impeto sentito con che aveva pronunziato quell’ultime parole proseguì:

— Disperato del bene, il cavaliero si ritrasse