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della quale non è la peggiore qualvolta la forza accoppiata alla ragione non sia temperata colla giustizia e colla benevolenza. Masnade di ladri, accampando a baldanza per le foreste e per le lande, non solo davano fiera avventura al solitario passeggero, ma aggredivano e depredavano casali e borgate. Con costoro se la passavano d’intelligenza gli ostieri onde il viandante, il quale, vedendo imbrunire, aveva sollecitato il passo per ricoverare alla locanda e, raggiuntala, ringraziava il suo angelo che l’avesse ridotto in salvo, nel maggior cheto della notte si trovava assalito e sovente scannato nel letto. Birri e campagnuoli uscivano contro costoro; quadriglie di soldati acquartieravansi di distanza in distanza: ma non è ben chiaro se maggior danno recassero i protettori o i masnadieri, la forza legale o la perseguitata.

Tutto ciò, sebbene poco abbia a fare col racconto di che intendo trattenervi, sia detto per giunta al panegirico di quel buon tempo antico, che tanti rimpiangono continuamente.

E non è ancor tutto. Conviene aggiungere i feudatarj, che, tiranneggiando ciascuno nel suo Stato, esteso poco più d’un miglio, imponevano ad arbitrio taglie, servizj, pedaggi, e sotto l’ombra di quella forza brutale che aveva acquistato il nome di diritto, esercitavano le angherie e le prepotenze dei ladroni insieme e della soldatesca.

Uno di siffatti dominava, appunto in quei tempi, nel castello di Barzago, terra di felice posizione, seduta in poggio sulla cresta di quel giogo, che come sopra accennai, diviso per un piccolo valico dal Monte di Brianza, estendesi da Rovagnate al Lambro, dominando da un lato l’alta Brianza, dall’altro il