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benefica e di guerre struggitrici, di frati e di guerrieri, di patimenti e di consolazioni, di bronzi che vomitavano la morte, e d’altri che, fra la tempesta, avviavano lo smarrito navigante!

Però il tumulto di guerra taceva da che, acquietato il Medeghino e toltolo di là, Carlo V erasi impadronito del Milanese, ponendo freno alle fazioni, ceppi alla libertà.

Ma non erasi cheta la tempesta nell’animo della signora Isotta, padrona di quel castello. Bella e fresca, sebbene già sui trent’anni, l’occhio suo guizzante rivelava l’irrequietudine interna. Sedeva sola ad un verone, che guardava il prospetto della Tremezzina, non ancora seminata di ville, e perdevasi lontano sui monti popolosi della Valintelvi, osservando il sole che, nel chinarsi dietro la vetta del San Zeno, vibrava un ultimo raggio a colorire di tremulo rosato la placida laguna.

È l’ora della meditazione. Chi di voi non l’ha sentita? Chi non ha provato una dolce melanconia, un ritorno soave sopra di sè, sopra il passato, al contemplare l’astro della sera brillante d’incerto raggio?

Soave, io dico, per chi abbia fatto tesoro di piacevoli sensazioni e di virtuose; ma per Isotta era ben altro. La pace della natura, il canto lontano delle villanelle che tornavano dalla mietitura e dalla vendemmia il quieto procedere di qualche barca, le richiamava la mente a calmi pensieri, alla prima giovinezza. E si figurava il tempo quando, fanciulla innocente ed in ascosa, se non povera fortuna, vagava tranquilla nelle campagne ove l’Adda si mesce col Po, tra il forte Pizzighettone e la turrita Cremona: le tornava a mente la placida benevolenza d’un padre,