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VII.


LA PALLA D’AVORIO.




E’ fu già un tempo quel ch’io dirò. Era nella capitale della Cina, di nobile ed illustre lignaggio, un uomo ricco nominato Fan-Yuen-lieu, che la gente chiamava, per fargli onore, Cang-ce, il venerando. Aveva egli un figliuolo, a cui pose nome Sieu, vago e gentil giovanetto, il quale, giunto all’età di diciannove anni, s’era acquistato nel collegio il grado di baccelliere.

Cadeva la festa dei morti,1 e Gang-ce preparatosi pei sacrifici da farsi alle anime dei defunti, s’avviò con ricche offerte al luogo ove erano le tombe della famiglia. Fra le ricchezze di casa v’erano due palle d’avorio rosso, squisitamente lavorate, che erano le più preziose cose che mai fossero nel regno: l’avolo della famiglia le aveva ricevute in dono dai suoi antenati, e rimontavano a tempi molto antichi. Dopo un pezzetto che Gang-ce fu uscito di casa, il figliuolo Sieu uscì pur esso, e presa una di quelle palle d’avorio, s’avviò giuocherellando con essa, alla funebre cerimonia. Aveva fatto pochi passi fuori