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siffatto colore. «Circa il rosso fattizio, egli dice, io non me ne servo, a causa che il medemo non serve per altro, che per coprire qualche difetto, e da molti miei buoni amici m’è stato proibito». In luogo del rosso, i nostri pittori adoperavano un giallo carico, molto simile al colore arancio, che essi distinguevano dal giallo paglino col nome di rosso; forse perchè faceva le veci di questi ne’ loro dipinti: la quale denominazione si è mantenuta anche al dì d’oggi nelle nostre fabbriche. Però se non fu ad essi agevole scoprire il segreto del rosso; non rimase loro sconosciuto quello della doratura. La quale, trovata da Jacobo Lanfranco i Pesaro verso il 1569, come si scorge dal privilegio della privativa concessagli dal duca di Urbino, passò nella nostra Castelli circa un secolo appresso.

Con sì pochi colori variamente permischiati in mezze tinte, servendosi della bianchezza del fondo per i lumi e i chiari, presero a ritrarre quasi tutta la gran varietà degli oggetti, che sono in natura; per modo che chi il gusto non ha molto fino, non si avvede della mancanza de’ più vivi colori in siffatti dipinti. E privi com’erano del rosso, pare che difficoltà somma stasse nell’imitare le carni; dappoichè molto tardi si giunse a colorare con buono effetto le incarnagioni: le quali fecero poi sì belle e delicate, che non ti fanno affatto desiderare il vermiglio. Il Dottor Grue e Giacomo Gentile furono in ciò grandi maestri. In una raccolta di ben intesi disegni a penna, che ci rimane di quest’ultimo pittore, ho trovato scritto la maniera che egli teneva: e mi