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Morì l’ubbriacon allor che a gara
Cogli sbirri bevea acqua di vita:
Acqua per sè mortal, che pur finita
Fe’ la doglia veder con morte amara.

Il gibbo, che il briccon sul dorso avea,
Gl’impedì riguardar l’azzurro cielo;
E tolto che gli fue il mortal velo,
Ver l’abisso la faccia ancora tenea.

A’ sconvolti capelli e serpeggianti
Sembrava il vero teschio di Medua,
Qual d’Ovidio cantò la dotta musa,
A cui formano il crin serpi fischianti.

Il cadaver di più nero all’esterno,
Pel puzzo e per l’orror allontava
Ognuno che curioso il riguardava;
Ch’era giusto un tizzon smorto d’inferno.

Rimase estinto Odon cogli occhi aperti,
Che sanguigni fur visti e ardenti ancora,
La lingua dal confin uscirne fuora:
Tutti del mal morir indizii certi.

A tal nuova, lettor, il Montecorno,
Che verso il cielo alza la cima altera
E par che giunga alla superna sfera:
Già s’estinse, gridò, chi mi fe’ scorno.

Il popolo esclamò pur d’Acquaviva,
Dal Castel che distrutto oggi si mira,
E delli Rossi ancor con voci d’ira:
È bene che il rio mostro più non viva!

Colledoro gridò: colle di piombo
Odone femmi con alchimia strana;
Giust’è che nell’inferno oggi s’intana,
E delle gioia mia s’oda il rimbombo.

Leomogna, che i suoi liquidi argenti
Tinti di sangue ostil cangiò in rubini,
Scorrendo ripetea tra sassolini:
È morto il turbator delle mie genti.

Poco lontan di lato il picciol Rio,
Che dall’alto sentier cade spumante,
Rispondea tra sè tutto brillante:
Già già l’oste morì del popol mio.