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che non riposa sulla forza: consideriamo tutti i diritti come conquiste.
Più naturale è il nostro apprezzamento degli uomini e delle cose grandi: consideriamo la passione come un gran delitto, concepiamo l’esser grandi come un «mettersi al di fuori» rispetto alla morale.
Più naturale è la nostra posizione rispetto alla natura: non l’amiamo più per la sua «innocenza», per la sua «assennatezza» per la sua «bellezza», l’abbiamo graziosamente «indiavolata» e «istupidita». Ma invece di disprezzarla per questo, da allora ci sentiamo più familiari e più acclimatati in essa. Essa non aspira ella virtù: perciò noi la stimiamo.
Più naturale è la nostra posizione rispetto all’arte: noi non desideriamo da essa le belle menzogne etc; domina il brutale positivismo che constata senza eccitarsi.
In summa: vi sono indizii che l’Europeo del XIX secolo si vergogna meno dei suoi istinti; egli ha fatto un buon passo verso la confessione tranquilla della sua incondizionata naturalità, cioè della sua immoralità: anzi si mostra abbastanza forte per sostenere anche l’aspetto.
Questo suona per certe orecchie come se la corruzione fosse progredita: e certo è che l’uomo non si è avvicinato alla «natura» di cui parla Rousseau, ma ha fatto un passo oltre in quella civiltà che egli aborriva. Noi ci siamo fatti più forti: noi ci siamo di nuovo avvicinati al XVII secolo e specialmente al gusto della sua fine (Daucourt, Lesage, Regnard).
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Progresso del XIX secolo rispetto al XVIII (in fondo noi buoni Europei conduciamo una guerra contro il XVIII secolo):
1) «Ritorno alla natura» sempre più deciso nel senso opposto a quello di Rousseau. Via l’idillio e l'opera!
2) Sempre più decisamente antiidealistico, obiettivo, impavido, laborioso, misurato, diffidente contro i mutamenti improvvisi, antirivoluzionario;
3) Sempre più decisamente anteponente la questione della salute del corpo alla salute «dell’anima»: intesa quest’ultima sempre più come uno stato susseguente alla prima o almeno come da essa condizionata.