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valso fino ad oggi, per il quale, la mèta pareva stabilita, data, imposta dal di fuori, vale a dire da una qualsiasi autorità sovrumana. Da quando l’uomo ha disimparato a credere in questa autorità, si cercò, secondo un’antica abitudine, un’altra autorità che sapesse parlare un linguaggio assoluto e che potesse imporre mete e compili. La autorità della coscienza viene ora in prima linea — (quanto più si è emancipati dalla teologia, tanto più imperativa diventa la morale), quale compenso di un’autorità personale. Oppure «l’autorità della ragione», oppure l’istinto sociale (il gregge), oppure la storia col suo spirilo immanente che ha in sè la sua mèta e a cui l’uomo si può abbandonare. Si vorrebbe evitare di volere una meta, il rischio che si potrebbe correre nel proporsi una mèta; si vorrebbe sottrarsi alla responsabilità (si accetterebbe il fatalismo). Infine: la felicità con un po’ di tartufismo, la felicità dei più.
L’uomo dice a sè stesso:
1) Non è affatto necessaria una mèta determinata.
2) Non è affatto possibile prevederla.
Proprio nel momento in cui sarebbe necessario che la volontà avesse la massima forza, essa è debolissima e pusillanime al massimo grado. Diffidenza assoluta, verso la forza organizzatrice della volontà per l’insieme.
29.
Il nichilismo non è soltanto una meditazione sopra l’«Invano!» non è soltanto la fede che tutto meriti di perire; ci si mette la mano, si distrugge; questo è, se si vuole, illogico; ma il nichilista non crede alla necessità di esser logico. E’ uno stato di spiriti e di volontà vigorose e non è possibile per tali persone rimaner fermi dinanzi al «no»» del giudizio; il «no» dell’azione deriva dalla loro natura; l’annientamento operato dal giudizio asseconda la distruzione fatta dalla mano.
30.
Per la genesi del nichilismo. — Si ha soltanto tardi il coraggio di confessare a sè stessi ciò che si sa davvero. Soltanto da pochissimo tempo ho confessato a me stesso di esser stato finora profondamente nichilista; l’energia, il radicalismo con cui sono an-