rivata l’aspirazione opposta, manifestatasi in un tempo anteriore, l’aspirazione al ripugnante, la schietta e austera attitudine degli antichi elleni al pessimismo, al mito tragico, all’immagine di tutto ciò che è terribile, cattivo, enimmatico, annientante, fatale, che si cela in fondo all’esistenza; donde sarebbe nata la tragedia? Forse dal piacere, dalla forza, dalla sovrabbondanza della salute, dalla pletora della pienezza? E allora quale significato ha, contemplato sotto l’aspetto fisiologico, quel fantasticamento di cui si alimentò sia l’arte tragica che la comica, quel farneticamento che è la follia dionisiaca? Come? Forse che il delirio non è necessariamente il sintomo della degenerazione, della corruttela, della civiltà troppo vecchia? Vi sono forse, ed è questione da porsi agli alienisti, le neurosi della sanità? della giovinezza e dell’adolescenza dei popoli? Che cosa dice la sintesi di un dio e di un caprone nel satiro? Da quale sperimento di travaglio e per quale estro il greco poté figurarsi in sembiante di satiro il fanatico dionisiaco e l’uomo delle origini? E, quanto alla nascita del coro tragico, balzò fuori forse nei secoli in cui il corpo greco veniva sbocciando come un fiore, l’anima greca spumeggiava di bollor di vita e forse di ebbrezze collettive? Visioni ed allucinazioni, che si propagavano a tutte le comunità, a tutte le adunanze del culto? Come? i greci dunque avevano la voglia del tragico ed erano pessimisti proprio nel possesso opulento della loro giovinezza? quello che sparse, per