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l’annientamento 191


cisione, che questa lunga serie di effetti artistici apollinei non hanno punto prodotto in lui quella felice perduranza della contemplazione involontaria, che ottengono in lui l’artista plastico e il poeta epico, ossia gli artisti specificamente apollinei; vai quanto dire, che non hanno prodotto in lui la giustificazione del mondo della individuatio che si raggiunge appunto nella contemplazione, e che rappresenta il culmine e la sostanza dell’arte apollinea; Contempla, divenutogli chiaro, il mondo della scena, eppure lo nega. Vede davanti a sè con epica chiarezza e bellezza l’eroe tragico, eppure si diletta del suo annientamento. Comprende fino all’intimo gli avvenimenti scenici, eppure si rifugia volentieri nell’incomprensibile. Sente giustificati gli atti dell’eroe, eppure prova maggiore elevazione d’animo, che questi atti distruggano l’autore. Rabbrividisce dei mali che colpiscono l’eroe, eppure presagisce in cotesti mali una gioia più alta, di gran lunga più soverchiante. Vede di più e più a fondo che mai, eppure si desidera cieco. Donde deriveremmo questa stupenda antinomia interiore, questo spianamento delle cime apollinee, se non dall’incantesimo dionisiaco, che, pure eccitando al massimo grado alle forme dell’apparenza i moti apollinei, nondimeno ha virtù di sottomettere al proprio servigio cotesta esuberanza della forza apollinea? Bisogna intendere il mito tragico meramente come una figurazione allegorica della sapienza dionisiaca ottenuta mercè i mezzi artistici apollinei: esso mena