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184 | capitolo ventunesimo |
dei mondi», senza strapparsi a questa ridda pastorale della metafisica e rifuggirsi inarrestabilmente nella sua patria primordiale? Che se pure una tale opera possa venir percepita nella sua complessa totalità senza l’annientamento dell’esistenza individuale, se una tale creazione fu potuta esser creata senza mettere in brani il suo creatore, ebbene, donde attingeremo la soluzione di una contraddizione siffatta?
Qui tra la nostra suprema eccitazione musicale e la musica interviene il mito tragico e l’eroe tragico, in fondo non più che come allegoria dei fatti universalissimi, dei quali solo la musica ha potestà di parlare in via diretta. Se non che il mito, quale allegoria, ove lo sentissimo come puri esseri dionisiaci, rimarrebbe senza effetto e senza l’adeguato apprezzamento, né ci distoglierebbe un sol momento dal tendere l’orecchio all’eco degli universalia ante rem. Ma qui sorge la potenza apollinea, rivolta a ripristinare l’individuo quasi annientato, col balsamo salutare di un’illusione deliziosa: immantinente noi crediamo di vedere niente altro che Tristano, quando immoto e cupo si domanda: «la canzone antica: che cosa mi desta?» E ciò che prima c’invadeva come un sospiro profondo dal centro dell’essere, ora ci dice solamente che «deserto e vuoto è il mare». E dove noi senza fiato credevamo di spegnerci in una tensione convulsa di tutti i sensi, e un punto solo ci teneva legati a questa esistenza, ecco che ora udiamo e vediamo unicamente l’eroe ferito a