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182 | capitolo ventunesimo |
tatore quasi l’illusione, che la musica non sia altro che un mezzo supremo di rappresentazione per accendere di vita il mondo plastico del mito. Confidando in questo generoso inganno, essa può movere le membra alla danza ditirambica e abbandonarsi con franchezza a un sentimento orgiastico di libertà, nel quale, come musica per sé stessa, senza quell’inganno, non le sarebbe lecito di arrischiarsi di folleggiare. Il mito ci protegge dalla soverchianza della musica, nello stesso modo come, d’altro canto, conferisce ad essa la suprema libertà. Perciò la musica, in ricompensa, concede al mito tragico una significazione metafisica così penetrante e persuasiva, quale non raggiungerebbero mai, senza l’unico suo ausilio, la parola e l’immagine; e precisamente per sua virtù è riserbato allo spettatore tragico il sicuro pregusto di quella suprema gioia, a cui conduce la via che passa tra la rovina e l’annientamento, tanto che gli sembra di udire il più profondo abisso delle cose parlargli a chiare note.
Se a questo mio arduo concetto forse non mi è venuto fatto di dare nelle ultime proposizioni più che un’espressione provvisoria, accessibile a pochi, mi corre l’obbligo, proprio a questo punto, di non trascurare d’indurre gli amici a un altro tentativo, e di pregarli che si preparino all’intelligenza della tesi generale sopra un singolo esempio della nostra comune esperienza. Con questo esempio io non mi rivolgo a coloro, che si giovano delle immagini dell’azione scenica,