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la risurrezione di dioniso 177


Che nessuno mai cerchi di perturbare la nostra fede in una imminente rinascita dell’antichità ellenica! Giacché solo qui è riposta la nostra speranza in un rinnovamento e in una purificazione dello spirito tedesco al fuoco magico della musica. Altrimenti a che cosa sapremmo ricorrere? che cosa potrebbe ridestare una qualche espettazione consolatrice dell’avvenire nella desolazione e nel languore dell’odierna cultura? Invano andiamo in traccia di una sola radice potentemente ramificata, di una sola aiuola di terra fertile e sana: dovunque polvere, sabbia, aridità, agonia. Onde uno spirito solitario e sconsolato non potrebbe scegliere miglior simbolo, che il cavaliere accompagnato dalla morte e dal diavolo, come lo concepì il nostro Dürer, il cavaliere chiuso nell’armatura, dal rigido sguardo di acciaio, il quale non deviato di una linea dai suoi orridi compagni, eppure senza speranza, sa seguire la sua terribile strada, solo col suo cavallo e col suo cane. Un siffatto cavaliere dilreriano fu il nostro Schopenhauer: non aveva speranza, ma voleva la verità. Il suo pari non esiste.

Ma come cangia di repente la desolazione così tetramente descritta della nostra flaccida cultura, ove la tocchi l’incantesimo dionisiaco! Un turbine rapisce tutto quanto è consunto, putrido, frantumato, disfatto, lo avviluppa vorticosamente in un rosso nembo di polvere, e come un avoltoio lo trae al cielo. I nostri occhi cercano smarriti ciò che è scomparso: ciò che vedono è salito in