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capitolo quattordicesimo |
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come in carcere narra agli amici, di vedere in sogno un’apparizione, e sempre la stessa, la quale sempre gli ripeteva: «Socrate, esèrcitati nella musica!». Fino ai suoi ultimi giorni egli si tranquilla con la persuasione, che il suo filosofare sia l’arte suprema delle muse, e non crede affatto, che una divinità gli faccia richiamo alla «comune musica popolare». Finalmente in carcere, per alleviare del tutto la coscienza, si risolve anche a questo, a esercitarsi in quella musica da lui scarsamente pregiata. E in tale disposizione di animo compose un proemio ad Apollo e mise in versi alcune favole di Esopo. Ciò che lo spingeva a coteste esercitazioni era alcunché di simile alla voce ammonitrice del demone; era l’intuito apollineo, se per caso egli non fosse come un re barbarico davanti alla nobile immagine di una divinità che non intende, e pel suo manco d’intendimento rischia di peccare contro una divinità. La parola dell’apparizione che Socrate ha in sogno è l’unico seguo del sospetto, che gli viene, sui limiti della natura logica: forse, doveva egli domandarsi, non è vero che ciò che non mi riesce d’intendere sia anche l’inintelligibile? Esiste forse un dominio del sapere, dal quale il filosofo logico è escluso? Forse che l’arte è anzi un necessario correlativo e supplemento della scienza?