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euripide e il pubblico |
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del dramma, quale prima non era, sorge il sospetto, se l’antica arte tragica non fosse sproporzionata allo spettatore; onde si è tentati di vantare come un progresso su Sofocle la tendenza radicale di Euripide di mirare a una corrispondente proporzione tra l’opera d’arte e il pubblico. Ha il «pubblico» è una mera parola, e non è affatto una concretezza omogenea e consistente. Donde verrebbe all’artista il dovere di conformarsi a una forza che ha solo nel numero il suo vigore? E se pel suo talento e pei suoi fini egli si sente al disopra di tutti i singoli spettatori, come mai potrebbe tenere in maggior considerazione l’espressione comune a tutte coleste competenze a lui subordinate, anziché il singolo spettatore relativamente dotato del massimo gusto? In effetto, nessun artista greco ha durante il corso di una lunga vita trattato il suo pubblico con più audacia e sufficienza di Euripide appunto: egli che, anche quando le moltitudini gli cadevano ai piedi, buttava loro apertamente sul viso la propria tendenza, la stessa tendenza con cui aveva trionfato delle moltitudini. Se questo genio avesse provato il minimo senso di rispetto davanti al pandemonio del pubblico, sarebbe stramazzato sotto i colpi di clava delle sue disdette, prima di arrivare a mezzo della sua carriera. Facendo questa considerazione, vediamo che l’espressione da noi usata, di avere cioè Euripide trasportato lo spettatore sulla scena per farne un giudice davvero competente, è stata meramente provvisoria, e che è necessario che