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100 capitolo undicesimo


dalla sua mentalità; e se adesso in generale si vuole ancora parlare della «serenità greca», essa è appunto la serenità dello schiavo, che non sa assumere alcuna responsabilità grave, non sa aspirare a nulla di grande, non sa apprezzare né passato né avvenire più preferibile del presente. E proprio questo aspetto della «serenità greca» ribellò tanto le profonde e formidabili nature dei primi quattro secoli del cristianesimo: alle quali cotesto svignarsela femminescamente davanti a ogni cosa seria e a ogni sgomento, cotesto codardo contentarsi dei propri comodi tranquilli, parve una disposizione morale non solo spregevole, ma vera e propria disposizione anticristiana. E bisogna ascrivere alla loro influenza, se l’opinione sopravvissuta per secoli intorno all’antichità greca persistè con invincibile tenacia a vederla tinta di quella serenità color di rosa, quasi che non fosse mai esistito un sesto secolo con la sua nascita della tragedia, coi suoi misteri, col suo Pitagora e il suo Eraclito; quasi che non fossero esistite le opere d’arte della grande epoca, le quali pure, ciascuna per suo conto, non si spiegano affatto sopra un tale terreno di gusto di vivere e di serenità conformi ad anime vecchie e a mentalità da schiavi, e invece dimostrano di aver avuto come causa esistenziale una concezione del mondo completamente diversa.

Da quanto si è dianzi affermato, che Euripide ha portato lo spettatore sulla scena, per fare dello spettatore un giudice davvero competente