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la serenità dello schiavo 99


fisso il carattere dell’elocuzione. Perciò l’Euripide aristofanesco ascrisse a suo vanto l’aver rappresentato la vita e la pratica generale, notoria, quotidiana, sulla quale ognuno era posto in grado di dir la sua. Se adesso tutta la moltitudine filosofava, e con accortezza inaudita amministrava le terre e i beni e discuteva le sue cause in tribunale, era merito suo, era effetto della sapienza infusa nel popolo da lui.

A una moltitudine preparata e illuminata in tal conformità doveva ora volgersi la nuova commedia, per la quale Euripide, per così dire, ha fatto da corego; solo che adesso il coro era fatto dagli spettatori. Il quale, non appena si fu addestrato a cantare sul tono di Euripide, fece sì che venisse in voga quella specie di spettacolo in forma di gioco di scacchi, che fu la commedia nuova, col suo continuo trionfo della scaltritezza e della furberia. Pertanto Euripide, il corego, fu celebrato senza fine: avrebbero voluto morire per apprendere ancora qualche cosa da lui, se non avessero saputo, che i poeti tragici erano morti non meno che la tragedia. Ma con essa l’elleno aveva smarrito la fede nella sua immortalità, e non solo la fede nel suo passato ideale, sibbene anche la fede in un avvenire ideale. La parola del noto epitaffio: «come vecchio volubile e lunatico», va detta anche del decrepito ellenismo. Il moto del momento, il motteggio, il capriccio, il ruzzo sono le sue supreme divinità: il dominio è preso dal quinto stato, quello degli schiavi, e se non proprio da lui, per lo meno