l’espressione dei grandi e arditi sembianti, ora mostrava quella fedeltà meticolosa, che rende con scrupolo anche i lineamenti sbagliati della natura. Ulisse, l’elleno tipico della prisca arte, adesso tra le mani dei nuovi poeti si striminzisce nella figura del greculo, il quale da ora in poi occupa il cèntro dell’interesse drammatico come servo di casa disinvolto e furbacchione. Ciò che Euripide nelle «Rane» di Aristofane ascrive a suo merito, di avere cioè liberato della corpolenza solenne l’arte tragica col suo decotto di famiglia, noi lo ritroviamo innanzi tutto nei suoi eroi tragici. In sostanza lo spettatore vedeva e udiva il proprio doppione sulla scena euripidea, e si compiaceva che sapesse parlare tanto bene. Solo che non si tennero a questa compiacenza: appresero a parlare essi stessi alla maniera di Euripide, il quale appunto di questo si vanta nella sua gara con Eschilo: che per mezzo suo il popolo aveva imparato a osservare le cose con tutte le regole dell’arte, e a trattarle e cavarne le conseguenze coi più scaltriti sofisticamenti. In generale, con siffatta metamorfosi della parlata comune egli dischiuse le porte alla commedia nuova. Giacché da ora in poi non esisteva più alcun segreto nell’uso dei modi di dire coi quali potesse essere rappresentata sulla scena la vita quotidiana. La mezzanità borghese, su cui Euripide fondava tutte le sue speranze politiche, veniva ora a ricevere la sua espressione, dopo che il semidio nella tragedia e il satiro ubbriaco o semiuomo nella commedia antica avevano pre-