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lo spettatore sulla scena 97


genere artistico che salutava nella tragedia la sua precorritrice e maestra, allora si verificò con terrore, che esso aveva per filo e per segno i lineamenti di sua madre; ed erano, per colmo, proprio quelli che la madre aveva mostrati durante la sua lunga agonia. Contro cotesta agonia della tragedia lottò Euripide; e il nuovo genere che ne seguì è noto sotto il nome di commedia attica nuova. In essa continuò a vivere la figura degenere della tragedia, cippo commemorativo della sua fine misera e violenta.

Dato cotesto legame, si comprende l’inclinazione passionata che trovavano per Euripide i poeti della commedia nuova; tanto che non può troppo stupirci il desiderio di Filemone, di volere essere subito impiccato per andare all’inferno a visitare Euripide, solo che si fosse persuaso che il morto laggiù serbasse tuttora il suo ingegno. Ma se con la massima brevità, e senza la pretesa di dir nulla di esauriente, si vuole indicare ciò che Euripide ha di comune con Menandro e Filemone, e ciò che Io imponeva a loro come un modello irresistibile, basti dire, che Euripide ha preso lo spettatore e lo ha portato sulla scena. Chi ha capito di quale materia i tragici prometeici anteriori ad Euripide formassero i loro eroi, e quanto fosse lontana dalla loro intenzione l’idea di portare sulla scena la maschera fedele della realtà, si rende conto della tendenza del tutto diversa di Euripide. Guidato dalla sua mano, l’uomo della vita di ogni giorno passa dalla cavea sul palcoscenico: lo specchio, che prima rifletteva