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46 | una serva |
fiato il pavimento, rimessi i piatti in ordine nell’alta rastrelliera di legno, riempiti d’acqua i rilucenti secchi di rame. I padroni riposavano nelle camere del piano superiore: un gran silenzio era nella casa, che pareva abbandonata.
Cullata dal tichettio dei ferri, Anin abbracciava coi piccoli occhi stanchi il profilo e l’armonia delle cose che amava: le bonarie pareti brune, le tede d’ottone a tre becchi appese alla caminiera, il ramo di lauro sull’architrave, la rocca e l’arcolaio in un canto, in memoria della massaia morta. L’uscio a vetri, aperto sulla ringhiera, raccoglieva nel vano una visione di pace infinita, un mare di verde in tre toni: ricco e lucido dei castagni, giallognolo dei noci, grigio delle betulle: giù giù digradante a onde, fin che terra e cielo andavan sommersi in una nebbiolina bluastra.
— Giorno di bucato, domani — pensava, più con l’istinto che col cervello. — Alzarsi alle quattro.... numerar la biancheria.... il sapone alle donne.... ma dov’era, dov’era il sapone?... Ouf, che caldo, che peso!... dov’era il sapone?...
Ma il fragile filo si spezzò nella sua testa: